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Fraternità in politica?

Molti avranno forse sorriso allo stridore della parola fraternità associata alla parola politica. O forse si è pensato a quanto fosse ingenuo associare le due parole.

Ma come si fa a parlare di fraternità in politica? Perché il vescovo Crociata, da poco insediato nella diocesi di Latina-Terracina-Sezze-Priverno, parla di fraternità in politica? (leggi testo integrale)

Anche io sono convinta che la fraternità è ciò che in questa fase di crisi di riferimenti e di indirizzi può aiutare a scrollarsi di dosso gli orpelli ideologici e le cattive prassi sociali: è l’anello mancante alla rivoluzione che ha segnato la storia culturale d’Europa – LIBERTA’, UGUAGLIANZA, FRATERNITA’ – è la “cenerentola” dei cardini della Rivoluzione Francese che ha trovato nell’idea della solidarietà un surrogato efficace ma non risolutivo delle disuguaglianze ed esclusioni che il capitalismo e liberismo economico hanno generato. (La solidarietà è derivata da una concezione scientistica e materialistica della società che riconosce l’interdipendenza degli esseri umani con uguali bisogni primari non garantiti dal sistema economico vigente e pertanto compensati da un atteggiamento solidarista incoraggiato anche per i suoi effetti coesivi sulla società).

Parliamo chiaramente: la fraternità in politica non è darsi pacche sulla spalla, non è il “volemose bene” tra colleghi di diversi partiti, non è il fine del nostro agire, bensì la forma del nostro agire, uno stile, una pratica quotidiana di gesti comunitari, di gesti sociali e per questo politici.

I molti che sono venuti in contatto con l’idea della fraternità come categoria politica (leggi un approfondimento) spesso cadono nella semplicistica conclusione che fraternità come categoria politica significhi lavorare per giungere ad un orizzonte comune di pensiero, o di orientamento politico, oppure la capacità di trovare dei punti in comune.

Non è così.

Fraternità in politica significa lasciarsi mettere in discussione: lasciarsi mettere in discussione dall’altro, dalla sua vita, dal suo pensiero, dalla sua cultura, dalle sue esigenze…
Fraternità in politica significa sospendere le proprie capacità sintetiche per il tempo che si deve al vero ascolto dell’altro.
Si tratta di una pratica di riconoscimento e di legittimazione dell’altro e della sua alterità (con la pretesa di mantenere questa alterità!)

Nella vita politico-amministrativa succede che questa modalità venga talvolta esplicata all’interno dei lavori delle commissioni: il numero dei consiglieri è ristretto (non più di 12-14) e rappresentativo di tutte le forze politiche elette. Nell’analisi delle proposte, degli atti amministrativi, dei documenti di bilancio, dei regolamenti il riconoscimento e la legittimazione che viene riconosciuta reciprocamente rispetto alle competenze di ogni consigliere e/o della dignità delle proposte porta spesso a trovare unanimità. Su temi come gli asili nido, gli orti sociali, le consulte, le barriere architettoniche è stata trovata unanimità di indirizzi, ma poi, nell’attuazione che necessita del passaggio agli uffici capita che le priorità cambino: la burocrazia rallenta le procedure e il politico responsabile dell’attuazione dell’indirizzo si lascia distrarre da tanti piccoli interessi particolari che affollano le scrivanie.

Mentre l’uguaglianza e la libertà mettono l’accento sui diritti del singolo, il concetto di fraternità decentra l’agire, sposta l’accento sull’altro

  • eliminando i privilegi
  • prendendosi cura dell’altro
  • dando priorità ai rapporti con le persone (comunità, face to face)
  • intendendo l’uguaglianza come appartenenza ad una sola famiglia

I politici non sono solo espressione del popolo (e quindi anche della varietà delle tipologie di persone), ma influiscono sulla vita della collettività ostentando uno stile che per la natura altamente comunicativa che la vita politica ha nella nostra società mediatica, è di per sé imitabile ed imitato.
L’incapacità di sciogliere questioni legate a ruoli, lo stallo rispetto a numerosi temi legati a deliberazioni di Consiglio mai attuate, l’assenza dal proprio ruolo con conseguente stagnazione della vita amministrativa sono tutte sfide che si potrebbero vincere se la propria vita politica fosse vista come un servizio, invece che un privilegio.

Un servizio che svolgiamo nei confronti dei nostri fratelli-concittadini.

Liberté, égalité … fraternité.

Un vero leader sa che il futuro del proprio gruppo, del proprio paese, risiede nella capacità di allargare i propri confini mentali e programmatici, e INCLUDERE. Includere, e comprendere, inteso nell’accezione originaria (e più bella) della parola: accogliere dentro di sé.
La sopravvivenza stessa è stata determinata, nella storia dell’uomo, dalla capacità di “prender dentro”, di saper aprire i propri confini e, magnanimamente o “ob torto collo”, integrare. “Cum-prendere” è la salvezza, è il continuare ad essere, è il garantirsi l’esistenza futura.
Si, perché se guardiamo con questi occhi la realtà politica, economica e sociale che stiamo vivendo, il dramma sta nel metodo affermato e consolidato dell’esclusione.
C’è una tendenza a creare dei distinguo continui, come se differenziarsi a tutti i costi fosse sinonimo di “esistere”, mentre si assottiglia il proprio spessore esistenziale per un amore ossessivo della precisazione.
Certo, definirsi è auto affermarsi. AUTOaffermarsi. E poi? Siamo in grado di far seguire la SINTESI di coloro che coesistono, che condividono uno stesso spazio, uno stesso tempo, uno stesso partito?

Di distinguo si può morire assiderati e di solitudine.
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Anche Jeremy Rifkin afferma, con forza e metodo scientifico, che la civiltà dell’empatia è l’unica speranza per evitare il collasso planetario.

Ho da tempo bandito dal mio linguaggio politico ogni parola che fa riferimento alla guerra: “stiamo facendo una battaglia”, “avversario politico”,  ”stanare”, “far scoppiare”, sostituendo con “stiamo lavorando a…”, “colleghi della maggioranza”, “far emergere”, “portare a conoscenza”… perché è vero, come è scritto in un libro di duemila anni fa, “Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa contaminarlo; sono invece le cose che escono dall’uomo a contaminarlo”.
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